I.V – Michel Bauwens

Molti sono alla ricerca di un nuovo paradigma economico e sociale che
prenda il sopravvento nel 21mo secolo. Michel Bauwens lo ha individuato
nel peer to peer. E non parliamo solo di sistemi per scambiarsi file su
internet, ma di un modo di produzione non gerarchico, decentrato e tra
pari che esca da internet e contamini tutta la società. Bauwens, che
insegna alla Dhurakij Pundit University di Bangkok, con la P2P Foundation si occupa di raccogliere e sistematizzare tutte le esperienze di cooperazione libera, tra pari, dal basso, open source. E’ l’evangelista del peer to peer.

Cosa intendi per P2P?
Tutti ormai usano programmi di file sharing peer to peer per scaricare
video o musica. Ma l’uso che faccio io del termine è piu ampio e più
profondo. Fondamentalmente in quei programmi ogni computer del sistema
agisce come un pari tra altri pari. Non c’è un computer centrale da cui
scaricate un film. Per me la caratteristica principale dei sistemi P2P
è proprio la possibilità che danno agli individui di entrare
liberamente in relazione con gli altri e di agire insieme. Possiamo
chiamarlo network distribuito e decentrato, in cui il potere è
spezzettato e diviso tra tutti. Pensate a un’autostrada, costruita da
qualcuno tramite una decisione dall’alto, e a un sentiero nel bosco,
che è il risultato del passaggio di diverse persone. Il risultato è
simile, ma il tipo di interazione tra le persone è completamente
diverso. Internet può essere usato come un’infrastruttura orizzontale
che permette alle persone di connettersi, creare media, condividere
file, lavorare insieme: la rete abilita dinamiche P2P.

Come funzionano le comunità P2P?
Le comunità di produzione
tra pari sono basate su dinamiche sociali particolari: se sei un
programmatore di sofware libero o se scrivi su Wikipedia sei un
volontario non pagato, ma sei spinto dalla tua passione e da una forte
motivazione. Questo è il sogno delle imprese: lavoratori motivati. Be’,
nel mondo P2P le persone non motivate sono automaticamente escluse,
perché non hanno altri motivi per partecipare, e questo ne fa un
ambiente straordinariamente produttivo. E poi nella produzione tra pari
c’è un nuovo modo di guardare alle persone, che io chiamo
equipotentiality. Invece di decidere un modo di produzione e poi
assumere persone per portarlo a termine, devo disegnare un compito e
dividerlo in pezzi più piccoli possibili. Poi serve un sistema che
permetta alla gente di far coincidere le sue idee, le sue capacità, con
i compiti da svolgere, proprio come fa Wikipedia. Il meccanismo è
basato sull’autoselezione. Bisogna aprire al massimo la partecipazione
e creare controlli di qualità di tipo comunitario, creando un sistema
basato sull’inclusione e non sull’esclusione.

E’ così rivoluzionario?
Per me questo è un punto di svolta
sociale nella nostra civiltà. Per semplificare lo scambio di
informazioni e di beni abbiamo dato vita a società gerarchiche. Oggi le
nuove infrastrutture tecnologiche permettono una coordinazione globale
di piccoli gruppi. Quindi la novità è che possiamo creare artefatti
sociali molto complessi, come Wikipedia o Linux, senza bisogno di
un’organizzazione gerarchica in cui qualcuno dica agli altri cosa
devono fare: una moltitudine di individui e gruppi si coordinano e
controllano il loro lavoro. Un cambiamento in direzione di relazioni e
strutture P2P. Credo che in questo ci sia un grande potenziale di
liberazione che conduce verso alternative aperte, basate sui beni
comuni e sulla partecipazione che sono legate al P2P, in cui le
gerarchie sono flessibili e le strutture aperte alla partecipazione.

Quali processi sociali vi stanno alla base?
Parliamo di tre
nuovi tipi di processi sociali che ora avvengono non su scala locale ma
su scala globale. Il primo è la produzione tra pari, cioè la capacità
di produrre valore comune. Il secondo è la governance P2P, cioè la
capacità di gestire questi processi senza ricorrere a gerarchia e
centralizzazione. Il terzo è la proprietà P2P, cioè la possibilità di
proteggere i beni comuni e dei prodotti del lavoro comune
dall’appropriazione privata. Se chiudo l’accesso a un bene dicendo che
è mio e non più tuo, be’… in questo modo distruggo l’intera comunità
P2P. Questo non significa che questi beni o informazioni non possano
essere usate da un’azienda, per esempio, per mezzo di licenze come
quelle che proteggono il software libero. Tutti possono usarlo purché
non lo privatizzino e rilascino i loro prodotti nel dominio pubblico.

Non è un orizzonte così semplice da intravedere
Infatti dobbiamo aprire la nostra immaginazione politica e sociale:
siamo abituati a pensare all’alternativa tra stato e mercato. Da una
parte privatizzazione e liberismo, dall’altra l’intervento dei governi
per salvare le banche, per esempio. La produzione P2P ci invita a
guardare a un terzo modo di trovare soluzioni politiche, economiche o
sociali che siano organizzate sui gruppi umani.

Secondo te il P2P rimarrà limitato a nicchie di produzione o si espanderà?
La
storia del capitalismo è fatta di grandi ondate di crescita basate su
tecnologie rivoluzionarie. Ciclicamente, il capitalismo si trova di
fronte a una crisi, e da queste crisi il mondo esce cambiato. Credo che
ora stiamo andando verso qualcosa di simile: il mondo fondato sul
sistema di produzione industriale sta crollando e non sappiamo cosa
troveremo al suo posto. Probabilmente però le nuove tecnologie su cui
si baserà il sistema futuro saranno il web e le tecnologie
dell’informazione; esse stanno già crescendo alle periferie del sistema
industriale. Il modello futuro dovrà includere l’apertura alla
partecipazione e alla produzione peer to peer, proprio come il
capitalismo di oggi ha dovuto inglobare le idee socialiste con il
welfare e il suffragio universale, per esempio.

Quali sono le misure che proponi?
Dobbiamo favorire
l’apertura delle infrastrutture, ovviamente. Ma abbiamo bisogno anche
di tre tipi di istituzioni: la prima sono i beni comuni, che vanno
protetti finanziando l’innovazione sociale, per esempio ricercatori che
producono nuovi farmaci e invece di brevettarli li mettono a
disposizione di tutti. Poi dobbiamo favorire le pratiche economiche
sostenibili: sostegno alle piccole imprese che fanno innovazione
sociale, per esempio. Infine è necessario sostenere quell’1% di persone
che sono più attive nella produzione P2P. Infatti il 90% circa degli
utenti di progetti P2P ne fa un uso passivo, il 10% contribuisce
saltuariamente, e l’1% invece è composto da persone che lavorano al
progetto a fondo. Questo 1% deve poter sopravvivere senza fare altri
lavori. Le città e le regioni che sapranno dar vita a queste tre
istituzioni saranno più interessanti per le comunità P2P ma anche per
il business: saranno economicamente più forti.

Nessuno, però, ha ancora trovato il modo per difendere i diritti di chi produce contenuti gratuiti per il web
Per
questo dobbiamo accelerare questo processo e favorire le domande
sociali che spingono per il peer to peer, l’open access, i beni comuni.
Già oggi in fondo assistiamo alla nascita di un welfare dal basso
basato su beni comuni e P2P: ci sono comunità che vengono sostenute da
aziende per portare avanti progetti P2P, per esempio quella del
software open source. Ciò però non garantisce i singoli individui: c’è
bisogno di un reddito di base per tutti, che permetta di affrontare i
periodi di transizione da un lavoro all’altro o quelli in cui si passa
dal mercato alla produzione P2P. Dopo la seconda guerra mondiale l’idea
di un welfare universale sembrava un’utopia. Eppure l’abbiamo ottenuto.
Anche oggi dobbiamo contemplare riforme radicali.