A Nablus sto in un hotel nella parte est, quasi in cima ad uno dei monti su cui si espande il nucleo abitato e la mia finestra si affaccia su un cimitero. Molti dei ragazzi morti durante la seconda intifada sono sepolti qui. Appena all’ingresso ci sono le gigantografie con le foto di alcuni di loro, abitavano in questa parte di Nablus ed anche le tombe dei ragazzi le riconosci perché sono quelle con le foto, e la cosa mi è sembrata sigolare da subito, per una cultura aniconica come quella mussulmana. A dire il vero ovunque, dalle strade appena intorno ai check point fino al cuore romanico della città vecchia, è possibile trovare le foto dei suoi martiri dell’intifada. Nablus nel suo splendore di città fra le più antiche della Palestina non esita a mostrare le sue ferite e chi vive qui con orgolio si descrive, fra tutti i palestinesi, come quelli con un carattere spiccatamente indipendente, sono gli insofferenti. Non è un caso che Nablus sia stata una fra le ultime, assieme a Jenin, a cadere nelle mani degli Israeliani nel 1967 e l’intifada per i sionisti è stata durissima qui.
Allo stesso tempo sono fra quelli che per ora hanno vinto la medaglia dell’accoglienza, non ci vuole molto ad attaccare bottone, ed anche se non sanno che qualche parola di inglese mi ritrovo nelle loro case, in un clima familiare che mai mi sarei sognata di apprezzare, la classica dimensione da domenica pomeriggio (solo che qui è venerdì) con tutta la famiglia riunita, un po’ sonnolenta ma che ad un certo punto prende una nuova piega.
All’improvviso arrivo io l’Italiana coi negros (sarebbero i ricci), e via a caffè e danze.
Tutti si sono sbellicati quando gli ho raccontato del mio viaggio in bicicletta, così come ci sono rimasti davvero male quinado gli ho raccontato che il soldato israeliano mi aveva detto di stare attenta alle pietre degli Arabi. Certi della mia risposta mi hanno domandato cosa ne pensavo io e soprattutto se mi ero mai sentita veramente minacciata attraversando i villaggi palestinesi sulla via. Chiaramente no, gli ho anzi raccontato della cordialità dei visi che mi hanno salutato e sorriso con la testa fuori dal finestrino nel mio cammino.
La cosa li ha rassicurati, ma allo stesso tempo ho letto sui loro volti la ferita di una menzogna che si protrae che ti chiude ed appiattisce in uno stereotipo. Forse non avrei dovuto dirglielo…
Mi muovo di casa in casa, trascinata dai profumi delle focaccette fatte in casa che devo assolutamente assaggiare, dei te e delle chiacchiere, finche’ non mi trovo in un salotto di sole donne.
Sono a casa di Nuha, con le sue tre figlie, e con le vicine di casa Hannin e sua figlia Jasmin, poi arrivano ancora latre amiche madre e figlia questa volta più grandi, non ricodo i loro nomi, ma vengono da Tel Aviv, il nonno ha dovuto mollare la sua casa nel 1948, per poi stabilirsi a Nablus. Mi raccontano che solo qualche anno fa sono andate a trovare la casa del nonno. Il nuovo inquilino ha provato a giustificarsi dicendo che lui ha acquistato la casa da poco e bla bla bla, ma loro in tutta tranquillità gli hanno risposto che loro volevano solo fermarsi un po’ nel giardino.
Sono questi gli Arabi così pericolosi?
Si parla di tutto dall’amore alla politica e la cosa che mi commuove è che in quella stanza le età vanno dai 10 ai 57 anni e in questa convivialità passano e si tramandano le storie, le riflessioni si incrociano e diventano esperienza legame solidale. Ancora una volta mi sento a casa ed infatti mi viene un’idea: gli propongo di incontrarci ancora così facciamo uno scambio culturale culinario, loro vogliono la pizza… e che pizza sia!
ciao pazzissima! seguo con gusto le tue avventure e soprattutto mi gusto le immagini. un abbraccio forte
:)))
ciao vel
seguimi e non stare in pensiero…mentre ti sfondi a Valencia.
Oggi parto per Hebron e poi vi aggiorno da li’
:*