Joel e’ il proprietario dell’hotel Al Wehdeh a Ramallah, è in centro vicino ad Al Manarah, la piazza con i leoni, verso cui confluiscono le strade del mercato e della zona commerciale della città. Io ci sono capitata per caso, perché quelli che vevo contattato non mi hanno risposto per tempo e il bus da Gerusalemme ferma proprio qui sotto.
All’inizio mi hanno dato la stanza piccola, quella scalcagnata ed ammuffita, che a me andava benissimo, anche perché penso sia l’unica da cui il segnale della rete wireless arriva bello pulito e questo e’ prioritario, si sa.
La prima notte passata li’ l’ho fatta ascoltando la radio. E ciò è fico, si sa.
Al rientro da Nablus, avevo la precisa intenzione di ritornare qui, anche perché il proprietario Joel mi ha incuriosito molto e volevo saperne di più.
Arrivo con la mia bici e trovo tutti intorno al tavolo per il pranzo, mi accolgono con calore e proprio Joel mi dice che si stava giusto arlando di me. Non avevano notizie da 4 giorni e si stavano anche un po’ preoccupando.
Beh che dire sono arrivata al momento giusto, affondo la pita nell’humus.
Passo il pomeriggio a chiacchierare con Joel che mi racconta la sua storia. E’ per metà palestinese ma e’ nato in Martinica, non ha il visto per stare a Ramallah, la città di suo padre, ma è qui da qualche mese proprio per seguire suo padre che ha deciso di tornare a morire qui.
Non sa dire perché ma negli anni 80 ha deciso di lasciare le isole caraibiche per venire qui in Palestina e mettere in piedi l’hotel, anche se lui è un avvocato ed ha una formazione di tutt’altro genere.
Ha fatto mille lavori in una Palestina in cui le tensioni si sentivano gia’ prima del 2000, mi racconta di atroci episodi fratricidi, proprio qui di fronte all’hotel, dove la polizia palestinese per difendere due coloni israeliani ed evitare il caso diplomatico, ha aperto il fuoco sulla folla, sgozzato un bambino. Ricordi orribili.
E mi racconta che ad un certo punto, quando vedi tante ingiustizie intorno a te, i fratelli che muoiono, la gente che va via, non puoi rimanere con le mani in mano. E parte l’impegno politico.
L’hotel doveva essere una specie di quartier generale, fino a che una mattina arrivano gli Israeliani, vanno dritti in giardino, aprono il pozzo e toh, e’ pieno di armi. Viene portato in carcere, menato, fino a che un ebreo che collabora con i Palestinesi riesce a farlo andare via.
Viaggia fra il Portogallo e la Francia dove ha vissuto fino qualche mese fa. In qualche modo dalla Giordania è riuscito a tornare per stare gli ultimi mesi vicino a suo padre. Ma Joel è chiuso in gabbia qui nel suo hotel ha 57 anni, ha paura non ha più le forze e sa che non riuscirà mai ad avere un visto.
Sta vendendo il terreno dell’hotel dove ci faranno qualche altra cosa o forse unaltro albergo, ma come tutti gli altri super attrezzati che sorgono qui a Ramallah, la città cosmopolita e liberal della Palestina. Mi spiace un bel po’ mi semra di essere quasi al postello, con quel sogno di accoglienza, rivolta prima che ai turisti proprio agli stessi Palestinesi mi dice lui, ed èper questo che le stanze non costano tanto.
Questo hotel aveva un progetto, un senso altro che la mera sopravvivenza. Lo capisco bene e mi rattrista molto sapere che non andrà oltre, proprio oggi mentre leggo su haarez che alcuni rabbini delle colonie israeliane hanno “invitato” i bravi fedeli qui nella terra santa a non affittare o vendere case e lotti per la costruzione a persone non ebree, ovvero arabi, ma non solo.
La differenza fra l’accoglienza araba e quella israeliana mi risulta lampante e questo hotel ne ha impresso il segno.
Joel parla ai suoi collaboratori come un padre, non assume mai un tono burbero con loro, mi dice che spesso, visto che non dorme, lava tutta la cucina di notte, e loro lo apprezzano per questo. Mentre parliano passa il più giovane di loro, gli porge una sigaretta e glie l’accende come si fa con chi ti sta simpatico, con chi ti sembra degno di rispetto.
Ma sa che non può offrirgli una grossa chance di carriera ed è stanco.
Ha già combattuto tanto e, mi dice, non vede grandi opportunità per la Palestina, mi parla anche della sua visione del suo odio per Al Fatah ed Hamas insieme, della sua disillusione e del suo timore per una nuova guerra a breve.
Parliamo ancora, dell’Europa del conflitto sociale in Europa e del fatto che ci ha messo un bel po’ ad accettare i lamenti dei francesi er questioni che a lui sembravano futili. Parliamo di precarietà gli racconto i cazzi miei.
Per ora basta mi dà una nuova stanza non arriva il wireless ma mi sembra una delle stanze più belle mai viste, è fatta per metà di vetrate una delle quali è sulla testata del letto e sovrasta la città.
Mi fermo ancora un altro giorno a Ramallah, non mi sento tanto bene, forse ho preso freddo o forse ho magiato qualcosa di cattivo. Passo il pomeriggio a scrivere e a leggere news, a Joel racconto della notizia che Brasile, Argentina ed Uruguay hanno dichiarato di riconoscere uno stato palestinese entro i confini anteriori al 1967. Ho visto una luce nei suoi occhi, mi ha detto che non è sorpreso per questo, ma la cosa non gli farà cambaire idea. Nel bar dell’albergo c’è una mappa della Ppalestina quella che l’Argentina sta riconoscendo, ma poi mi mostra la mappa reale dell’attuale arcipelago palestinese. Scherziamo, lui e’ nato nei caraibi, un arcipelago, ed adesso si trova in un altro arcipelago solo che non c’è l’acqua, ma proprio per niente.
Mi dice che ci vorranno almeno un centianio di anni per rimettere insieme il territorio, e lui è anche malato l’unica cosa che si immagina di poter fare è passare il resto dei suoi giorno con i suoi figli occuparsi di loro e trasmettergli le sue storie, i suoi modi e la sua cultura.
Parto per il sud, il nord del West Bank mi mancherà molto.