la biennale cinema – domenica 6 settembre

Il freddo e la rabbia del personaggio di Tetsuo mi hanno impedito di settare correttamente la sveglia.. e quindi domenica mattina mi sono persa Gordos di Daniel Sanchez-Arevalo,

commedia brillante a base di ciccioni in cura, lo rifanno a Milano, sara’ uno dei film che mi andro’ a cercare. Arrivo al lido ed e’ gia’ sfiga, e’ anche la giornata della pixar e del leone d’oro alla carriera per il grande John Lasseter, e il tappeto rosso e’ coronato di palloncini e bambini che urlano ai loro eroi in 3D. Decido di scappare immediatamente rifugiandomi nella sala con un film italiano, li’ non ci sara’ nessuno (ghgh).

In realta’ la sala era piena di clac per il romano GoodMorning Aman, primo film per Claudio Noce che approda alla fiction dopo aver realizzato cortometraggi e nel documentari. Super sponsorizzato da internazionale, sulla carta sembra un lavoro interessante: un ragazzo somalo incontra un pugile incazzato dalla vita e instaurano un rapporto di dipendenza ed uso reciproco, nessuna amicizia, perche’ il ragazzetto non si fidera’ mai fino in fondo e il pugile e’ un bastardo fascista che vuole redimersi pagandolo e portandoselo in giro. La cosa interessante e’ che Aman e’ concepito come un ragazzo italiano, non un migrante, ma uno che sta in italia e li’ deve cercare di trovare il suo posto con gli altri, uno gia’ naturalmente italiano. Che di sti tempi non e’ assolutamente una cosa scontata. Questo e’ sicuramente il pregio di un film che per me pero’ e’ troppo estetizzante, all’inizio il lungo carrello sui titoli di testa con l’incedere rallentato di Aman alla stazione termini tutto in tele, mi hanno fatto esclamare nella sala del mio cervello, "Evviva, finalmente il primo bad asss italiano!" ma purtroppo non e’ stato cosi’. Aman non e’ un bad ass, e’ anzi un bravo ragazzo che vuole farcela e ce la fara’, mentre tutto il film si snodera’ in estenuanti ralenti, assolutamente a sproposito a mio avviso, e teleobiettivi che chiuderanno i due nella loro isolata vicenda, rendendola claustrofobica e decontestualizzata dall’Italia di merda in cui viviamo. Forse si poteva osare di piu’ e lo spettro di Abba che aleggia intorno al posto in cui vivo ne sa qualcosa, ma probabilmente e’ gia’ stato difficile fare il film in questo modo. Il regista cmq promette bene.

Mi sposto al pala biennale dove mi verdo’ tutti i film rimanenti. Comincio con il film cinese, Xialu Guo, gia’ premiata a Locarno con il Pardo d’Oro per "She Chinese", e’ presente nella sezione orizzonti con un bellissimo documentario Women cengjing de wuchanzhe (Once upon a time Proletarian: 12 Tales of a Country).

12 storie di lavoratori nella cina contemporanea che vanno dal contadino che rimpiange i tempi di Mao ai broker che parlano delle tette delle russe. Bellissimo non solo per le immagini splendide che la regista riesce a cogliere nella vita e nella quotidianita’ dei suoi personaggi, ma anche perche’ mette in luce una differenza sostanziale fra la cina e il mondo occidentale, a mio modesto avviso, la capacita’ di non identificarsi mai completamente con il proprio lavoro ma anzi di cercare senso in altro che non sia una dimensione spirituale o emotiva del se’. Strabello! Mi  ha quasi convinta che da grande indipendentemente dal fatto che io venda le zuppe o mi faccia le estenscion cerchero’ anche altro nella vita.


Di seguito White material, film in concorso diretto dalla regista francese Claire Denis ambientato in Camerun con Isabelle Huppert impeccabile anche quando corre nel fango, un film sull’attaccamento alla roba, non quella che avete capito voi, ma quella di pirandelliana memoria. Storia di colonialismo e delle diverse motivazioni dei colonizzatori, da chi ci trova l’oro e non ci si vuole staccare a chi vigliaccamente spera di tornare a casa, senza riflettere sul fatto che l’occidente forse non lo conosce piu’, a chi vive il dramma della colonizzazione fino alla follia. Interessante ma perdibile.

Non amo molto Michael Moore ma non devo nemmeno uscire dalla sala, quindi mi concedo Capitalism: A love story, l’ultimo suo film, nel senso che non ne vuole fare piu’. E’ interessante il fatto che questo film sia in concorso, un documentario concorre al miglior film, ad avallare il salto teorico della selezione veneziana, nella insignificante diatriba fiction/nonfiction. Questa volta il nostro provocatore ha fatto un film per cercare di capire cosa e’ successo con "la crisi". La sensazione che si ha e’ che nonostante il film non ci abbia capito molto, ad ogni modo e’ stato un pretesto per indagare una spropositata quantita’ di punti di vista di persone che da questa crisi hanno visto cambiare la propria vita, da chi vede strapparsi via la casa su cui aveva fatto un mutuo a chi scopre di avere su di se’ una taglia, un’assicurazione sulla vita dei lavoratori che sara’ riscossa dalla propria azienda. Per fortuna ci sono anche strorie di lotta, di fabbriche recuperate negli USA che diventano cooperative per il bene comune dei lavoratori. Con il solito stile ironico e spregiudicato che alterna le classiche immagini di repertorio del sogno americano, con la crudezza e l’assurdita’ della vita reale, Michael Moore ha realizzato il suo ultimo film documentario, spiega nei titoli di coda, perche e’ troppo vecchio e queste cose le fa da tanti anni, sono passati 20 anni da Roger&Me e dice, "non ne faccio piu’ a meno che non ci siate anche voi spettatori a farli con me".